storia e memoria

Boscaioli e Carbonai
Il mestiere dei Boscaioli e dei Carbonai (di Giuliano Cappanna)
Boscaioli e carbonai
Ricordo il sudore che colava dalla fronte dei boscaioli, all'epoca in cui l'accetta la faceva da padrone e nel colpire l'albero davano slancio "ansciando'", mentre l'albero cadeva, con sibilo d'aria, paurosamente a terra.
Spesso nell’ abbattere gli alberi più grossi si avventavano in due: uno per parte al fusto a menar l'accetta.
Nel taglio seguivano, come peraltro avviene anche adesso, lo schema geometrico dello "sterzo" che indicava gli alberi da abbattere e quelli da lasciare in piedi per la rolazione ventennale o trentennale.
Oltre all'accetta, la roncola e il marraccio erano gli attrezzi utilizzati per "'sbrollare"e cioè recidere rami e rametti per liberare il tronco, una volta che l'albero era ridotto a terra.
A completare il corredo del boscaiolo c'era il "'segone", maneggiato da due persone (segantini) per sezionare i tronchi e in particolare per preparare le traverse per le ferrovie; ciò, seguendo il movimento ritmico e noioso, stigmatizzato nel ritornello:
"seghin seghiamo,
tanto prendemo,
tanto mangiamo ".

Immagine 1 : Il taglio dei bosco
Ed era la verità; il compenso non consentiva di andare oltre.
Per lo più erano intere squadre di boscaioli che, nel lavoro stagionale, si trovavano fianco a fianco con mulari al seguito di animali da soma che provvedevano al trasferimento di traverse, tronchi, legna da ardere tagliata ad occhio, oltre a rami e rametti per fare il carbone.
Da piccolo avevo avuto modo di conoscere l'attività dei boscaioli per aver assistito al taglio di una macchia non lontana dalla mia abitazione, ma del lavoro dei carbonai venni a conoscenza quando a sette anni la mammna mi portò a trovare gli zii che abitavano a Pieve de' Saddi, in un podere al vocabolo Caldarara.
Mentre seguivo lo zio che andava nel bosco a battere la gineprella in anfratti gengosi, mi sono imbattuto in un pianetto privo di erba e lo zio mi spiegò che era lo spiazzo dove faceva il carbone.
Tornai più grandicello e potei assistere al momento in cui completava la carbonaia, con la sistemazione degli ultimi bastoni, e incominciava a coprirla con pellicce e zolle di terra.
Non ebbi il tempo di seguire il lavoro attorno alla carbonaia nella sua interezza, ma lo zio durante il cammino per tornare a casa dal bosco mi spiegò per filo e per segno l'attività dei carbonai nella trasformazione della legna in carbone.

Immagine 2: Una catasta di legna appena smacchiata
Cosi lo ricordo e lo racconto, ora che di carbonai con le mani ruvide, annerite, e di muli e mulari ce ne sono rimasti ben pochi.
Pure le case in collina e in montagna sono spopolate e cadenti; gli alberi trovano terreno per crescere proprio in mezzo alle stesso e festeggiano il riappropriarsi dello spazio, agitando i rami sul tetto che non c'è più.
Lo zio raccontava che con i muli trasportavano i rami per fare il carbone, dal luogo del taglio fino ai lati delle piazzole sterrate poste ai margini del bosco.
Quei piazzali, che capita ancora di incontrare a chi si avventura nel bosco, ormai raramente utilizzati e che pian piano si ricoprono d'erba, costituivano il piano di lavoro sul quale esprimevano la loro sapienza i carbonai.
Su quell'aia boschiva affluivano rami e rametti di quercia, cerro, carpino, orniello e il carbonaio, fissando nel terreno al centro due legni ed appoggiando ad essi alcuni rami più consistenti, andava a definire la camera di combustione ed il camino.
Poi aggiungendo rami per "ritto", come si usava dire, iniziava la costruzione, sistemandoli a regola d'arte circolarmente attorno al nucleo centrale.
Man mano che la costruzione si ampliava venivano utilizzati bastoni più sottili, ben affiancati e posti uno sull'altro in modo da definire orientativamente una figura geometrica conica che andava a cimare, raggiungendo nella parte centrale un'altezza che poteva variare da due a tre metri, mentre il diametro di base poteva essere di cinque o sei metri.
Quando tutta la legna era stata sistemata veniva ricoperta con uno strato di pellicce dei

Immagine 3: Il segone
campi con sopra terriccio di bosco, in modo da costituire una coltre alta un palmo, tale da impedire all'aria di penetrare.
Terminata questa operazione occorreva salire in cima con una scala e introdurre carbone ardente dal camino centrale, dopo di che si chiudeva il foro con una lastra di pietra per evitare che I'aria sollecitasse la combustione e ostacolasse il fenomeno della carbonatura.
Il carbonaio utilizzava un capanno, ai margini della piazzola, previamente costruito con pali di legno, frasche e ginestre, con all'interno un pagliericcio e li si trasferiva per la durata dell'attività intono alla carbonaia, in modo da essere sempre pronto e vigile sulla combustione, per intervenire ove neccessario.
Il carbone infuocato fatto scivolare dal camino e colà chiuso riscaldava i tronchi più vicini e dopo due o tre giorni, quando incominciava a fuoruscire il fumo azzurrognolo, significava che la parte centrale si stava trasformando in carbone.
A questo punto il carbonaio, aprendo alcuni piccoli fori sulla coltre esterna, lasciava trapelare quel tanto di aria che consentisse la combustione per tutta la massa e nel contempo impedisse al fuoco di prendere il sopravvento sul fumo.
Con lo "sfumare e sfiatare" a mo' di respirazione dai fori praticati nella carbonaia, sotto l'occhio attento del carbonaio, si concludeva il processo nel giro di dieci o dodici giorni.

Immagine 4: Costruzione della carbonaia con legni per "ritto"
Quindi si lasciava freddare la carbonaia per alcuni giorni; dopo di che si cominciava a liberarla dalla cosiddetta coperta fatta di pellicce e terra, per portare alla luce, come per incanto, carbone e carbonella.

Immagine 5: Completamento della carbonaia con la coltre di terriccio e pellicce

Immagine 6: La carbonaia è accesa

Immagine 7: La carbonaia respira con lo sfumare e lo sfiatare

Immagine 8: Carbone e carbonella sono pronti
Fonti: Testo e fotografie da, Giuliano Cappanna “Un mondo di sentimenti e di sudore”, Trestina 2013, in pp. 88-93.
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