storia e memoria
INTERESSANTI APPROFONDIMENTI
STORICI DI MARIO TOSTI
La grande diga sul Tevere
Nel 1983 vennero alla luce nel Tevere una grande quantità di pali che vennero fotografati da Renato Codovini. Dalle indagini di Mario, Marco e Matteo Tosti, si è ipotizzato che costituissero la base dello sbarramento, nato nel XII sec., alto fino a 6 metri, che racchiudeva in un bacino la fortezza della Fratta. Da un documento del 1527, infatti, abbiamo notizia di un bacino artificiale a monte del ponte sul Tevere le cui acque potevano formare un “chiarissimo lago”, come venne descritto nel 1565 dal Piccolpasso. Lasciamo la parola allo studio degli ingegneri Mario, Marco e Matteo Tosti che hanno gentilmente concesso di riportare su questa pagina.
Studio pubblicato su “L’Ingegnere Umbro” n. 43, Dicembre 2002 e segnalatoci da Alvaro Gragnoli. Foto aggiunte da Fabio Mariotti.
(a cura Di Mario, Marco e Matteo Tosti)
Il ritrovamento di una palificazione di fondazione.
Dei lavori di dragaggio sul letto del Tevere nel 1983 fecero ritornare alla luce una gran quantità di pali a circa 80 metri a valle del ponte. Fu Renato Codovini, impareggiabile ricercatore di storia locale a notarli, fotografarli ed intuirne l’importanza come resti delle fondazione di un’antica chiusa. Pochi anni dopo, nella loro pregevole tesi di laurea (“Ritrovamento della diga sul fiume Tevere, località Umbertide provincia di Perugia”, Università degli Studi di Firenze, anno accademico 1987/1988), Alberto Crocioni e Roberto Codovini hanno ampliamente documentato la struttura e la tecnica costruttiva dell’opera, caratterizzata da un’originale fondazione a scacchiera in tavoloni di quercia e pietre di fiume.
La tesi
Abbiamo voluto approfondire l’argomento, cercando di portare l’ingegneria in aiuto della storia, incuriositi dall’imponenza della palificazione di fondazione nella direzione della corrente del fiume, per una lunghezza stimabile in almeno 15 m: questo indizio lasciava presupporre un investimento ingente, sia finanziario che tecnico-organizzativo e, quindi, una finalità di grande rilevanza strategica. Abbiamo cercato di immaginare quale fosse l’intenzione dei committenti, che non poteva essere soltanto quella di azionare le pale del vicino mulino, che avrebbe potuto essere realizzato altrove con uno sbarramento molto più modesto, magari su un piccolo affluente del Tevere. L’ipotesi più verosimile ed affascinante era quella che la diga servisse a creare un invaso talmente esteso da allagare stabilmente il fossato tutt’intorno alla cinta di mura; forse non aveva esagerato, nel 1565, Cipriano Piccolpasso nell’usare un superlativo – “chiarissimo lago” – alla vista del fiume di Fratta, che descrisse e rappresentò nella panoramica più antica del luogo.
Ed è proprio questa la tesi che intendiamo dimostrare, ricostruendo la storia della “grande diga” e della sua configurazione strutturale e funzionale.
Le notizie d’archivio
Non si hanno notizie dirette e particolareggiate di quest’opera, sull’esistenza della quale tutti gli scrittori di storia locale hanno taciuto. Solo l’ingegnere militare Piccolpasso, nel disegno sopra citato ha tracciato la struttura della diga, anche se con linee appena accennate, forse perché a quel tempo aveva già perso di importanza sotto il profilo militare, che rappresentava l’argomento di principale interesse per l’autore: esempio encomiabile di bravo ingegnere che non spreca nemmeno un tratto di matita che non sia indispensabile. O segno di scarsa soddisfazione per il rimborso spese richiesto nella parcella: “30 bajocchi per il cavallo da Castello alla Fratta, 30 bajocchi per desinare ed cena alla Fratta, 10 bajocchi a coloro che me aiutaro a mesurare, 30 bajocchi per il cavallo per Perugia; e più 50 bajocchi fatto dare alla femeglia de messer Paulo, dette messer Gherardo soldato de fortezza per le fatighe di detto messere Paolo”. Il giro contornto di questi ultimi 50 bajocchi – consegnati ad un soldato per darli ai famigliari del signor Paolo che aveva faticato – desta qualche sospetto, caro ingegner Cipriano!
Si dispone invece di notizie indirette sull’esistenza dello sbarramento, la più antica delle quali risale ad una registrazione del 6 febbraio 1527, dove si usa l’espressione versus clusam molendini, nel descrivere le attività svolte negli edifici situati nelle adiacenze dello sbarramento, ai margini del fiume, in fondo a piazza S. Francesco. In quell’area infatti la diga permetteva di fornire l’energia necessaria a diverse fabbriche: l’acqua, convogliata lungo un canale di derivazione, tramite l’apertura delle rispettive portelle secondo turnazioni concordate, azionava la macina del grano del Molino di Sant’Erasmo; faceva girare le mole dei fabbri per l’arrotatura delle falci ed altri ferri (spade, lance…); azionava i magli di legno nella gualchiera, per comprimere ed assodare il panno di lana; fluiva nella vasca del lavatoio pubblico; infine tornava nell’alveo del Tevere a valle dello sbarramento.
La mancanza di altre notizie più particolareggiate ci ha spinto a ricercare elementi oggettivi per saperne di più.
Foto di Fabio Mariotti.
La simulazione dell’invaso
Innanzitutto si è cercato di stimare l’estensione dell’invaso.
In una prima fase è stata individuata la configurazione che avrebbe oggi, in caso di ripristino della diga, dopo aver valutato l’altezza dello sbarramento: per questo è stato preso come riferimento fondamentale la quota del pavimento dell’antico lavatoio pubblico della Caminella, dove negli anni ’60 era ancora visibile la vasca originaria, anche se il suo utilizzo era stato riconvertito in allevamento di mignatte per la farmacia, utilizzando l’acqua stagnante di superficie che vi si raccoglieva. Questo riferimento è certo, in quanto la quota è rimasta invariata rispetto al periodo di utilizzo; d’altra parte la presenza – nelle immediate vicinanze ed allo stesso livello, delle altre utenze della diga appena descritte, ben più rilevanti – fa escludere l’ipotesi che il lavatoio, con l’abbondanza dell’invaso, utilizzasse acqua di vena.
La quota del pavimento del lavatoio pubblico, risultata pari a 238, 25 m s.l.m., può quindi essere ragionevolmente assunta come livello di sfioro dell’invaso, i cui contorni sono stati definiti sulla base della corrispondente curva di livello nell’attuale configurazione del terreno.
I confini come sopra determinati sono stati successivamente corretti sulla base delle modifiche apportate dall’uomo e dal fiume nel corso dei secoli, di cui sia restata traccia.
Questi elementi portano ragionevolmente a concludere che, nel periodo di massima efficienza militare di Fratta perugina (xv secolo), l’invaso circondava tutto l’isolotto del centro storico, al quale si poteva accedere soltanto attraverso il ponte rampante della Piaggiala, il ponte levatoio della Rocca ed il ponte sul Tevere.
L’altezza dello sbarramento
La differenza fra il livello di sfioro a 238 m s.l.m. sopra dedotto e la quota (232 m s.l.m.) dell’area del greto del fiume da cui oggi emergono i pali di fondazione, consente di stimare in circa sei metri l’altezza della diga: per quei tempi la grande diga della Fratta era davvero un’opera ciclopica.
Planimetria dei luoghi in un disegno degli autori
(1) Lavatoio pubblico;
(2) Molino di Sant’Erasmo;
(3) Chiese di Santa Croce, San Francesco e San Bernardino;
(4) Grande diga;
(5) Tevere;
(6) Ponte sul Tevere;
(7) Torrente Regghia;
(8) Rocca, con ponte levatoio e “calzo de fuora”;
(9) Ponte rampante della Piaggiola, torrione rotondo e Porta della Campana.
Le funzioni dello sbarramento
La rilevante complessità del progetto, l’imponenza della struttura e l’onerosità economica della sua realizzazione, confermano la tesi di un utilizzo militare della grande diga: la sua utilità primaria era quella di mantenere costantemente allagato il fossato intorno alle mura, per la sicurezza degli abitanti del castello, e di ridurre le sollecitazioni ai piloni di fondazione del ponte appena a monte. Gli altri benefici di ordine economico (fornitura d energia per le attività produttive e prelievo di pesce dalla pescaia), seppure più importanti per il benessere della popolazione, furono collaterali ed ininfluenti alla decisione della costruzione dell’opera.
La nascita
L’inesistenza di scritture relative a tali lavori, non consentono di stabilire con certezza il periodo a cui risalgono. E’ tuttavia verosimile l’ipotesi che solo dopo il passaggio al dominio di Perugina (1189) siano esistite le condizioni per costruire un’opera così imponente.
Solo una città come Perugia poteva avere la necessaria capacità economica, le conoscenze tecnico-militari e le motivazioni politiche: è proprio quello il periodo in cui perseguiva un rafforzamento come Comune, per consolidare un suo spazio vitale fra i grandi poteri del momento nel Centro-Italia, capitalizzando il vantaggio dell’equidistanza da Firenze e da Roma.
Al contrario, nei tempi precedenti non esistevano condizioni per giustificare uno sforzo tanto ingente: dapprima – fino alla morte di Matilde di Canossa – era la marginalità, come remoto luogo di confine del Marchesato di Toscana, a sconsigliare l’investimento. Poi dopo lo smembramento di questo in tanti territori dominati da piccoli signori, era la scarsità di risorse economiche a rendere impraticabile l’impresa.
La stessa mancanza di notizie relative alla costruzione della diga, imputabile alla scomparsa degli Annali di Perugia – dal 1190 al 1230 – relativi proprio al periodo presumibile della costruzione, costituisce un indizio confermativo della tesi che si sta sostenendo, in quanto non è verosimile che di un’opera così imponente non siano stati compiuti atti formali.
Si può concludere affermando che la costruzione della grande diga può essere collocata fra il 1189 (inizio del dominio di Perugia su Fratta) ed il 1230 (disponibilità degli Annali perugini).
Il sistema progettuale complessivo
Cerchiamo ora di definire altri dettagli dello sbarramento e della sua organizzazione funzionale.
L’invaso era suddiviso da un “guardiano centrale”, appena inclinato rispetto alla direzione di scorrimento del fiume. Fra questo e la sponda sinistra – invaso ovest – doveva scorrere la corrente principale, che defluiva a valle dalla sommità dello sbarramento perpendicolare alla riva.
L’altro segmento, disposto in obliquo in modo da estendere la lunghezza del fronte del salto, era forse di altezza superiore in modo da contenere i danni sulla sponda sinistra, di grande pregio per la presenza delle attività produttive: il molino, i fabbri, la gualchiera; insomma, una specie di zona industriale del Borgo Inferiore.
La capacità dell’invaso, considerando l’altezza dello sbarramento pari a 6 m, la larghezza 70 m e la lunghezza del lago a monte di 1.200 m, è stata valutata in 250.000 m³.
La potenza massima ottenibile, con una portata utile del fiume assunta pari a 10 m ³/s, è stata stimata in 600 Kw, sulla base della relazione seguente: P = p·Q·g·ΔH
P = potenza;
p = densita’ dell’acqua;
Q = portata volumetrica;
ΔH = dislivello geodetico
Ipotizzando una larghezza del canale di adduzione al molino pari ad 1 m², una velocità della corrente di 2 m/s, un salto di 3 m ed un rendimento ragionevole per quei tempi, l’ordine di grandezza della potenza utile può essere collocato intorno ai 100 Kw.
Per una corretta funzionalità del sistema di sicurezza militare erano state adottate anche delle precauzioni tese a prevenire l’interramento del fossato per effetto dei detriti depositati dalle piene della Regghia, nel punto in cui sfociava nell’invaso sotto la Rocca, rallentando la sua furia. Pensiamo che sia stata proprio questa la funzione della “…chiusa del fiume della Regghia alter dicta el Battifosso quale e contigua ad lhorto della Roccha et ad presso ad li mura del ditto castello…”.
La morte
Cerchiamo ora di chiarire come e quando lo sbarramento abbia cessato la sua funzione.
A questo riguardo si ha notizia che il 20 ottobre 1610 crollarono due arcate del ponte ed il torrione del Mulinaccio all’angolo delle mura lungo il fiume; la contemporaneità dei crolli, appena a monte della grande diga ci ha fatto sospettare che il disastro fosse stato originato – con un “effetto domino” – dal degrado dello sbarramento. Le registrazioni d’archivio hanno confermato l’ipotesi: già nel 1606, infatti, lo sbarramento aveva mostrato l’urgenza di riparazioni.
La questione divenne oggetto di una disputa legale in occasione di un’altra piena, nel 1611; l’affittuario si lamentò perché il molino era “immacinabile ed infruttuoso” e la diga era stata “male custodita e male riattata”. I soggetti chiamati in causa – il Vescovato di Gubbio e la Comunità di Fratta – tentarono di scaricarsi l’un l’altro la responsabilità e l’onere della riparazione; il primo sosteneva che la diga era stata danneggiata dal crollo del ponte; la seconda rivendicava la tesi opposta, attribuendo al Vescovo le spese, come in effetti “era sempre stato”. A noi sembra proprio che – Monsignore ci perdoni! – avesse ragione la Comunità essendo davvero strano che i pesantissimi detriti del ponte, anziché adagiarsi sul fondo del fiume, abbiano travolto lo sbarramento a cento metri più a valle.
Comunque, per le nostre deduzioni, interessa solo che il molino da quel tempo non macinò più, a dimostrazione che la diga era appena crollata. Ma si hanno tante altre conferme: anche i fabbri furono costretti a recarsi presso altri molini nelle vicinanze che disponevano di mole adatte; ma la perdita di quelle di Sant’Erasmo fu insanabile se, pochi decenni dopo (1647), quattro fabbri di Fratta portarono a Roma 14.000 falci grezze (i martelli ancora non si producevano nell’Umbria rossa), affidandone la rifinitura ad arrotini della capitale. Dunque, anche le mole si erano definitivamente fermate. Analogamente l’attività della gualchiera fu spostata in una fabbrica simile, a Pian d’Assino, la cui struttura è ancora visibile sulla sponda sinistra di questo torrente, appena a monte del ponte che lo scavalca poco prima di sfociare nel Tevere.
Tutti questi fatti concorrono a confermare la dipendenza delle fabbriche di Piazza San Francesco dal grande sbarramento e la sovrapponibilità dei rispettivi periodi di funzionamento (dal 1200 circa, al 1611). Insomma la diga nacque quando fu necessario tutelare la sicurezza del castello con un lago e nessuno volle curarne la manutenzione da quando queste esigenze furono superate dall’evoluzione della tecnica bellica. Per tutto il tempo in cui fu di interesse militare – e solo per quello – fu anche fonte di lavoro e di benessere, nel rispetto di una triste priorità a cui l’uomo ha dovuto sempre soggiacere.
La condanna a morte della Grande Diga fu emessa per la ragione opposta che ne determinò il concepimento.
Qua sotto alcune foto con Mario Tosti e il fiume Tevere a sud del ponte nel luogo della "grande diga"; foto comparate con il disegno del 1565 del Piccolpasso che riportava la posizione della diga. Foto di di Fabio Mariotti .
Fonti:
- "La Grande diga di Fratta perugina", di Mario Tosti, Marco Tosti e Matteo Tosti, in “L’Ingegnere Umbro” n. 43, Dicembre 2002
- Foto e disegni articolo originale: Renato e Roberto Codovini, Mario, Marco e Matteo Tosti.
- Foto aggiunte: Fabio Mariotti
L’ENIGMA DELLA COLLEGIATA
di Mario Tosti
(tratto da “Pagine Altotiberine”*, n. 45, 2011)
* “Pagine Altotiberine” è una collana di libri pubblicati dall’Associazione storica Alta Valle del Tevere, che raccoglie soci della nostra vallata.
L’obiettivo principale dell’Associazione consiste nel fornire ai cittadini la possibilità di pubblicare testi sulla storia locale, senza alcun onere per l’autore, che riceve gratuitamente cinque copie del libro che contiene il proprio lavoro.
L’associazione si finanzia con le quote dei soci, che ricevono gratuitamente i tre libri che vengono pubblicati ogni anno.
La storia della costruzione
La storia della Collegiata è stata oggetto di ricerche che hanno consentito di conoscerne in modo esaustivo le vicende. In primo luogo, sono state approfondite nel libro monografico di monsignor Pietro Vispi (1), dal quale abbiamo estratto una sintesi delle notizie riguardanti le origini ed i particolari costruttivi della chiesa. Abbiamo anche sottoposto a monsignor Pietro, che si è cortesemente messo a disposizione, la tesi sostenuta in queste note, per escludere che eventuali informazioni aggiuntive a sua conoscenza smontassero qualche anello nella logica delle deduzioni.
Le cronache dell’epoca raccontano che, il 14 settembre 1556,
“una fanciulla di anni 7 ... che era struppia [storpia] in una cossa [coscia], sicché non poteva camminare senza sostegno, mentre stava orando davanti a questa immagine [N.d.R.: la Maestà dipinta in una piccola cappella vicina alla costruenda Collegiata], dicesi che questa gli parlasse ed incontinenti si trovò libera e sana, e camminò francamente”.
Pochi giorni dopo il vescovo di Gubbio inviò il suo vicario Cesare Sperelli, che
“…visitavit ecclesiolam beate et gloriosa virginis marie vulgo detta la madonna della regghia prope et juxta muros castri fratte...”
Quindi: la chiesetta in cui avvenne un miracolo sorgeva in prossimità delle mura di Fratta, in vocabolo “Madonna della Regghia”.
Per ringraziamento, si decise di costruire un tempio nelle immediate vicinanze.
Dall’atto di cessione del terreno del 15 aprile 1559 si apprende che i proprietari, signori Graziani di Perugia,
“dano e concedano per la Madona e capella infrascritta alla Comonità della Fratta tutte le Ragioni che essi hanno sopra de la Capella o vero Oratorio della Madona de la regghia fore de li mura de detto Castello et anco sopra le case a la detta Capella contigue et tanta quantità de terreno contiguo alla detta capella che serà bisogno per l’edificatione d’una chiesa da farsi in detto luogo in Honore de Dio e Della Glorioss. Virgine Maria purché non ecceda el contenimento del orto contiguo a detta Capella ...”.
Quindi: la chiesetta era contornata da un gruppo di case e da un orto.
Poco dopo, grazie alle copiose elemosine della gente, iniziarono i lavori di costruzione del tempio, con l’apporto di diversi architetti: Galeazzo Alessi, Giulio Danti, Bino Sizi, Mariotto da Cortona.
Un disegno del Piccolpasso mostra che nel 1565 la costruzione de La Madona era giunta fino al suo primo registro ed induce a ritenere che le case contigue alla cappella con l’immagine miracolosa, disegnate ad ovest della chiesa, verso la Regghia, siano state nell’area dell’attuale palazzo Reggiani.
La Collegiata fu completata nel 1597- 1599.
Dopo circa vent’anni, nel 1619, la cupola originaria evidenziò una lesione: conseguentemente cadde o, più probabilmente, fu demolita. Oggi si può avere un’idea della cupola primitiva dal dipinto di Bernardino Magi custodito nella chiesa di San Bernardino. La ricostruzione della cupola attuale, non più a sesto ribassato ma a tutto sesto, di diametro di base più piccolo, fu affidata a Filippo Fracassini (fino al 1650) con gli architetti Rutilio, prima, e Beniamino Sermigni, poi. Per poter consolidare il basamento della volta, senza compromettere
“l’ornamento dell’interno ... va attribuito l’ordine delle belle colonne, al cui trasporto
furono necessari centoquarantuno paia di buoi nel 1623”.
La lanterna in cima alla cupola fu terminata nel 1664, insieme alle porte lignee.
Gli indizi per la soluzione dell’enigma
Le notizie sopra riportate ci raccontano tutto sulla motivazione dell’ubicazione della Collegiata, sugli artisti che l’hanno costruita, sulle sue vicende principali; ma non svelano la ragione per la quale la chiesa della Patrona è stata impostata nella configurazione da cui, da oltre quattro secoli, scruta dall’alto della lanterna la vita dei mortali che si avvicendano intorno alla sua mole.
Proprio ponendoci questa domanda durante una passeggiata fra amici intorno alla chiesa ottagonale, è emersa l’intuizione che l’orientamento fosse stato scelto con l’intento di offrire il miglior scenario ai fedeli che procedevano verso il tempio. La ricerca che ne è seguita ha portato ad emergere diversi elementi che sembrano supportare tale ipotesi, come cercheremo di dimostrare nelle pagine seguenti.
Partendo dall’assunto che l’orientamento della chiesa non può essere stato casuale, analizziamo gli elementi oggettivi di conoscenza al momento disponibili, dai quali poter dedurre una risposta ragionevole all’enigma. Per questo facciamo costante riferimento alla figura 1, dove sono riportati gli elementi essenziali della pianta della chiesa e le costruzioni vicine segnalate dalle fonti storiche.
1. "Nell’Italia del XV e dell’inizio XVI secolo era in auge … la formazione di santuari su luoghi di eventi miracolosi attribuiti alla Madonna … Inoltre c’era la tendenza, resa nota dalla soluzione del Santuario di Loreto (iniziato nel 1469), di inglobare all’interno la cappellina preesistente.” (2)
2. La chiesetta fuori delle mura di Fratta con l’immagine miracolosa era adiacente ad alcuni fabbricati, come evidenziato nella sintesi storica sopra riportata.Dunque non esistevano neppure le condizioni pratiche per inglobarla, a meno di non demolire gli edifici adiacenti.
3. «L’attenzione all’orientamento astronomico dei luoghi di culto, attentamente ricercato in epoca medievale, viene meno negli edifici di impianto rinascimentale quando l’introduzione della bussola e delle moderne teorie filosofiche e scientifiche allentarono i legami di carattere mitico, magico, mistico che univano gli uomini del medioevo con l’osservazione del cielo, privilegiando invece il posizionamento dell'edificio in rapporto con il contesto urbano.
Nel caso della Collegiata, sono state comunque eseguite alcune misurazioni per verificare l'effettivo orientamento del fabbricato rispetto ai punti cardinali astronomici e per individuare eventuali spiegazioni ad essi correlate. I risultati dei rilievi, riportati nella figura 2, consentono di dedurre alcune considerazioni.
La decorazione a otto punte visibile sul pavimento al centro della chiesa, di forma assimilabile alla rosa dei venti, non risulta correlata ai punti cardinali, ma è solo un elemento decorativo subordinato alla forma del fabbricato, che in qualche modo riflette.
Sono state verificate anche le particolari modalità storiche di fondazione degli edifici a pianta ottagonale: "Generalmente l'orientamento dell'ottagono richiedeva che le direzioni cardinali passassero per i vertici del poligono, regola però che non sempre fu rispettata durante la costruzione dei battisteri mentre fu rispettata, nel periodo intorno al 1000, quando furono edificate svariate chiese a pianta ottagonale." (3)
Nel nostro caso, l'orientamento dell'ottagono non rispetta il criterio dei punti cardinali passanti per due spigoli opposti.
Sembrerebbe di poter dire che l'altare sia orientato all'alba del solstizio invernale, con il sole che sorge alle spalle del celebrante, ma non ci sono aperture nella parete che catturino, evidenziandolo, questo fenomeno che, di conseguenza, non sembra essere stato prioritario nell’impianto del fabbricato.
In conclusione, appare improbabile attribuire una spiegazione di tipo astronomico all’orientamento della chiesa.» (4)
4. Il portale di arenaria a nord, costituito da due colonne sovrastate da un timpano, aggetta perpendicolarmente al paramento murario. Sopra il timpano si intravede un arco di scarico (piattabanda) a tutto sesto, di mattoni a coltello in disposizione radiale, che si usa sopra le architravature al fine di ridurre o eliminare lo sforzo flessionale.
5. Il portale ad ovest, apparentemente gemello di quello a nord, presenta diverse peculiarità: aggetta dal paramento murario secondo una direzione obliqua, con angolo di circa 24° rispetto alla perpendicolare alla parete; all’esterno non è visibile l’arco di mattoni al di sopra del timpano.
6. Un disegno panoramico su Fratta (nella figura 3 è riportato il particolare della zona in esame), realizzato nel 1565 dell’ingegnere militare Cipriano Piccolpasso, non sembra riportare l’apertura ad ovest della Collegiata, sebbene la chiesa appaia eretta fino al primo registro: i segni presenti sulla sinistra della parete non sono al centro del lato del poligono e non hanno una forma geometrica regolare, ma sembrano assimilabili a delle alberature, come quelle riportate anche sulla destra della costruzione. Si precisa che il disegno è da considerare molto affidabile, come testimonia l’esattezza dei dettagli rappresentati negli altri edifici più importanti.
Il disegno evidenzia un altro particolare importante: il percorso originario della Regghia risulta spostato, rispetto ad oggi, verso la Rocca, confermando il successivo spostamento dell’alveo del torrente e, quindi, la necessità di costruire un nuovo ponte, come documentato al punto 9 seguente.
7. Le diversità fra i due portali esposte ai tre punti precedenti fanno ragionevolmente ritenere che quello ad ovest sia stato aperto in un secondo tempo, dopo la costruzione del primo registro. In ogni caso l’anomalia evidenziata nel portale ad ovest fa ritenere che questo fosse stato considerato in subordine rispetto a quello nord: dunque la rilevanza di quest’ultimo doveva essere davvero straordinaria se era risultata prevalente, ai fini della scelta dell’orientamento, rispetto all’alternativa di valorizzare la cappellina che aveva, addirittura, motivato l’opera.
8. Al tempo della progettazione della chiesa, l’accesso più antico ed importante all’interno delle mura era indubbiamente quello della Porta della Campana, che mostrava l’emblema del castello (l’antico giglio in bassorilievo, arme antichissima di fiorentini (5)) e consentiva al popolo di immettersi nella viabilità principale della vallata: la “Strada del Piano“, che collegava Città di Castello a Perugia, lungo la riva sinistra del Tevere, attraverso il ponte sul Carpina, la chiesa di Santa Maria, la Collegiata (appunto), la Madonna del Moro e Ponte Felcino. Dunque, per gli abitanti del castello di Fratta, la via più importante, per andare in Collegiata era quella in uscita dalla Porta della Campana, che si immetteva nella “Strada del Piano” attraverso la Piaggiola ed il Boccajolo. Inoltre era la strada più breve, perché l’alternativa possibile era quella di scendere dalla via Retta (il Corso), uscire dalle mura verso piazza San Francesco e risalire alla Collegiata per via Soli.
Dunque: per il popolo del castello di Fratta era naturale accedere dalla “Strada del Piano” alla grande chiesa fuori delle mura.
9. Si hanno notizie (6) di un vecchio ponte sulla Regghia a partire dal luglio 1632, dalle quali si deduce che fosse probabilmente composto da testate in muratura dove poggiavano travi di legno per l’attraversamento. I continui accomodamenti e rifacimenti nel XVII secolo indicano quanto fosse sottoposto ad usura. In particolare aveva dovuto fare gli straordinari nel sorbirsi anche il transito dei pesanti carichi di materiali provenienti dalle fornaci del Borgo Superiore, necessari proprio per la “fabbrica” della chiesa della Madonna della Regghia. Altri lavori di consolidamento furono realizzati nel 1726. Inoltre lo stato del ponte era fonte di pericoli, per cui la situazione diventava sempre più insostenibile.
Finalmente, nella riunione del 4 aprile 1770 il Consiglio Comunale prese di petto la questione:
“Essendo che sin da alcuni anni ... più volte pensato dalli signori Difensori e dalli rappresentanti di questa Terra di ovviare dalli pericoli che sono occorsi e che possono in avvenire accadere nel passare con cavalli stragini e some sopra il Ponte che passa sopra il fiume Reggia sotto la chiesa della Ss.ma Vergine, che essendo così angusto e senza sponde, o parapetto, più volte è successo essere stati in pericolo di precipitarsi cavalli e buoi con carichi e carri, et altri tiri.”
Tagliando la testa al toro, si deliberò di rifare ex-novo il ponte ormai pericolante, prevedendolo più largo, con robuste sponde ed idoneo a sopportare carichi maggiori.
A conferma di questa intenzione, il Capitolo della Collegiata cedette al Comune del “terreno per la costruzione del nuovo ponte sulla Reggia in direzione di Montone”(7). Il progetto fu sollecitamente realizzato, se nella grossolana pianta a colori del 1780 di Giuseppe Fabretti (8) (figura 4) il ponte è collocato nella nuova posizione ed è raccordato attraverso uno svincolo contorto al vecchio tracciato della “Strada del piano”, che nel frattempo era diventata sempre meno importante, rispetto alla più recente strada sulla riva destra del Tevere. La strada solo successivamente sarà rettificata ed ampliata, formando l’attuale via Veneto.
La costruzione del nuovo ponte in una sede diversa da quella primitiva, fu determinata anche dall’esigenza di ampliare il piazzale sotto la Rocca (9), i cui primi modesti lavori iniziarono nel 1803, in modo da risolvere un problema molto vecchio. Alla fine del 1846 la Magistratura di Fratta acquistò, per questo obiettivo, un altro pezzo di terreno con queste motivazioni:
“… la necessità di tale ampliamento [N.d.R.: dell’area per il mercato del bestiame] si fa sentire ogni di più e apertamente lo dimostrò l’ultima Fiera dei Bestiami in cui si vide ripiena di buoi non solo l’attuale piazza, ma pur anco lo stradale annesso che conduce alla casa del Signor Mavarelli e una gran parte del campo della Collegiata che si vorrebbe occupato dalla proposta ampliazione …”.
E’ ragionevole pensare che in quell’occasione fu deciso di allontanare dalla torre l’alveo della Regghia.
La sistemazione dell’area si concluse nel 1880, con la costruzione delle mura di sostegno e con l’innalzamento del livello del piazzale del mercato. Ernesto Freguglia aveva fatto appena in tempo a pitturare la zona (1875) nella sua originaria configurazione, con lo spiazzo ancora al livello del greto lungo la sponda del torrente.
In questo anno 2011 una suggestiva realizzazione ha riportato indietro le lancette del tempo, ripristinando una condizione simile a quella del XVII secolo, a dimostrazione di come l’uomo non disdegni di emulare Penelope nell’adattare l’ambiente alle sue variabili necessità.
Una ipotesi di soluzione dell'enigma
Sulla base delle informazioni oggettive sopra approfondite, si può dedurre che la configurazione dell’area della Collegiata e della zona circostante nell’anno1600 (immediatamente successivo al completamento della chiesa) fosse quella riportata nella figura 5, che può essere raffrontata con quella della figura 6, relativa all’anno 2000.
Per una più immediata percezione delle modificazioni subite nel corso degli ultimi quattro secoli, le situazioni indicate nelle piante sono replicate nei disegni di figura 7 – approfittando della matita prodigiosa di Adriano Bottaccioli, abituata a fotografare scenari ormai scomparsi del nostro castello – e nella figura 8, nella quale sono sovrapposti i cambiamenti che hanno portato allo scenario attuale.
A questo punto si può dedurre una verosimile spiegazione all’enigma postoci, che esponiamo di seguito.
Già in fase di posizionamento della nuova chiesa, si era deciso di non inglobare la piccola cappella con l’immagine della Vergine, come era d’uso in quel periodo (punto 1), perché troppo vicina ad altri fabbricati di pregio esistenti in adiacenza (punto 2).
La chiesa era stata in origine concepita con l’ingresso principale - e, in prima intenzione, probabilmente unico - corrispondente all’attuale portale nord, in asse con la principale via di accesso dal castello, come riportato nel disegno di figura 7. In tal modo la scenografia che si presentava ai fedeli in cammino verso la chiesa (punto 8) era della massima spettacolarità.
Su questo portale, contestualmente alla costruzione della parete, è stato realizzato l’arco di scarico al di sopra dell’apertura (punto 4).
E’ probabile che solo in un secondo tempo, durante la costruzione della chiesa, a qualcuno sia venuta l’idea di “unire” in qualche modo la vecchia cappellina e la grande chiesa. L’obiettivo è stato raggiunto con l’apertura di un secondo accesso (non disegnato nella panoramica del Piccolpasso richiamata al punto 6) nel lato prospiciente all’edicola originaria, che è stato ricavato a strappo, demolendo la muratura. Nell’occasione non è stata costruita la piattabanda sul paramento esterno, per vari possibili motivi: o perché gli ingegneri erano meno scrupolosi; o perché era più complicato ottenere un risultato esteticamente accettabile, dovendo inscrivere l’arco su un’apertura ottenuta a strappo. Non è però da escludere che la piattabanda sia stata realizzata ad un livello inferiore, in modo da essere occultata dal timpano in arenaria. Aggettante dal paramento murario, è stato costruito un portale gemello a quello già esistente, ma con una angolazione anomala, in modo da orientarlo verso la cappella originaria (punto 5); infatti il terreno donato per la costruzione della chiesa era appunto "contiguo" al sacello, come riportato nell’atto di cessione del terreno del 1559.
L’anomala angolatura può avere due diverse spiegazioni, a seconda che la costruzione del portale sia stata avviata dopo o prima di aver deciso di demolire il sacello - forse a causa dello stato di precarietà, tale da non giustificarne il restauro - e di spostare l’immagine della Vergine all’interno della chiesa.
Nel primo caso, in previsione del mantenimento della cappella, il nuovo portale avrebbe forse dovuto costituire uno dei due estremi di un porticato di collegamento fra la nuova e vecchia struttura; di fronte alla decisione di spostare l’effige e di demolire l’edicola, il porticato non fu più realizzato, lasciando l’opera incompiuta, per la sopravvenuta scomparsa della destinazione finale.
Nell’ipotesi che gli artefici dell’opera siano stati meno volubili nelle loro decisioni, appare più verosimile che l’idea di costruire il portale anomalo sia scoccata dopo aver deciso di demolire la cappella, con il conseguente doveroso risarcimento con l’evocarla per sempre nell’immaginazione dei fedeli.
In ogni caso, con tutta probabilità tale stranezza architettonica resta oggi ad indicare la direzione lungo la quale doveva trovarsi l'antica cappella con la Maestà.
L’apertura del secondo portale avrà comportato la necessità di spostare l’altare, collocandolo sul lato dell’ottagono opposto a quello compreso fra le due porte, in modo da conferire una nuova simmetria al tempio.
Conclusione
Se quella descritta è stata davvero la sequenza delle decisioni e delle opere, l’enigma che abbiamo cercato di dipanare è nato, dopo molti decenni dal completamento della Collegiata, a seguito della decisione di spostare il tracciato della “Strada del piano” e di sostituire il vecchio ponte sulla Regghia sulla strada verso il Borgo superiore con uno nuovo, in una posizione diversa.
Due sono state le ragioni:
-
lo stato di degrado e pericolosità del ponte;
-
l’esigenza di ampliare lo spazio intorno alla rocca per destinarlo al mercato del bestiame, dopo aver spostato l’alveo della Regghia e demolito la rampa di accesso al ponte levatoio, ormai obsoleto.
In sostanza: l’orientamento del tempio e la presunta ubicazione della originaria strada principale di accesso alla chiesa si spiegano a vicenda; con la modifica introdotta da quando, nel corso del XVIII secolo, il ponte e la strada preesistenti sono stati spostati verso nord-est, è stata cancellata la scenografia originaria, creando l’enigma per il quale si è proposta questa ipotesi di soluzione.
P.S.
Nella recente ristrutturazione dell’area circostante alla Rocca si è persa l’occasione per restituire alla Collegiata la scenografia originaria, con il semplice posizionamento del nuovo marciapiede lungo il tracciato dell’antica Strada del Piano.
* * *
Ringraziamenti ad Alvaro Gragnoli che, grazie ad una sua intuizione, ha dato il via alla ricerca ed a quanti hanno messo a disposizione i loro saperi: Giovanni Cangi, ingegnere umanista, per quanto concerne l’aspetto ingegneristico; Francesco Rosi, architetto, esperto ed appassionato di archeoastronomia; Monsignor Pietro Vispi, parroco della Collegiata, fonte preziosa delle notizie storiche, Adriano Bottaccioli, art director della comunicazione e pittore.
Note:
1. PIETRO VISPI, La Collegiata di Santa Maria della Reggia, Scuola Radio Elettra & M SpA, Città di Castello, 2001
2. LUCA SPORTELLINI, “Il Santuario di Maria Santissima Assunta in Rasina”, Fabrizio Fabbri Editore, 2011, p. 24
3. A. GASPANI, Astronomia e geometria nelle antiche chiese alpine, Priuli e Verlucca editori, 2000, Torino
4. Contributo di FRANCESCO ROSI
5. BELFORTI - MARIOTTI, Storia di Fratta, anno 1780
6. CODOVINI – SCIURPA, Umbertide nel secolo XVIII, GESP, Città di Castello, 2003, p. 42
7. PIETRO VISPI, La Collegiata di Santa Maria della Reggia, Umbertide, 2001, nota a pag. 60
8. GIUSEPPE FABRETTI, Notizie della Terra di Fratta, (ms BAP 2011)
9. RENATO CODOVINI - ROBERTO SCIURPA, Umbertide nel secolo XIX, 2001, GESP, Città di Castello, pp. 51, 122, 377.
LA MERIDIANA DELLA PIAZZA GRANDE DELLA FRATTA
di Mario Tosti
Nel ricordo di Renato Codovini e Amedeo Massetti
Con le note che seguono mi propongo di far luce sulle vicende di una meridiana ritrovata nel nostro centro storico. Cerco di dimostrare l’ipotesi che abbia rappresentato il riferimento locale per l’ora solare: l’ora della Fratta, nostrana ora di Greenwich.
Per questa missione, è vissuta in simbiosi con l’orologio della Torre della Campana, che sorgeva in cima alla Piaggiola. La sua odissea è iniziata sul davanzale di una finestra di fronte alla Rocca, al primo piano dell’edificio che ospitava la sede del Podestà e la sala del consiglio comunale, in Via Alberti. Dopo un paio di secoli di onorato lavoro, è stata sfrattata e reclusa sotto l’intonaco del locale dei garibaldini in Piazza Fortebraccio. Oggi si gode la meritata pensione nella bucolica campagna umbra.
Per completezza, ho cercato di ricostruire anche l’evoluzione degli strumenti di misura del tempo a disposizione della comunità fino ai nostri giorni.
Auguriamoci che continuino a misurare un tempo di pace e serenità.
IL RITROVAMENTO
Intorno alla metà del XX secolo, nel corso di lavori di ristrutturazione, fu rinvenuta una meridiana sotto l’intonaco della parete di fronte all’ingresso del locale a piano terra dell’edificio al n. 9 della attuale piazza Fortebraccio, davanti alla Rocca (Figura 1). È stato Rinaldo Giannelli, proprietario del locale a segnalarmela, proponendomi di cercare indizi sulla storia.
LA RICERCA DI INFORMAZIONI
In un primo momento, ero giunto ad una ipotesi risultata scorretta dopo aver conosciuto Mauro Bifani che, insieme a Manlio Suvieri, stava svolgendo una ricerca sulle meridiane dell’Umbria. Gli ho segnalato l’esistenza del nostro reperto, che è diventato oggetto della sua analisi esperta. Nel libro che hanno successivamente pubblicato - Le antiche ore, Meridiane e orologi alla romana nei comuni dell’Umbria, Futura edizioni, 2017 - un intero capitolo è stato dedicato a La meridiana della Piazza Grande alla Fratta, nel quale ho potuto integrare con la mia ricostruzione storica i risultati della loro ricerca tecnica e funzionale.
LE CARATTERISTICHE STRUTTURALI E FUNZIONALI
La piccola meridiana (36 cm x 36 cm) della Fratta, in terracotta di forma ottagonale, a ore italiche, era stata concepita per essere utilizzata in posizione orizzontale.
Sulla sua superficie sono visibili diverse incisioni.
-
In alto, si trova incisa la data di costruzione (1658).
-
Poco sotto, sono incisi un motto in greco e un altro in latino: “ΧΡΟΝΟΧ ΑΝΤΑΧΟ Υ ΑΝΕΜΕΙ” (Il tempo resiste ai venti). “AMBIGUIS ALIX LABILIS HORA VOLAT” (La fugace ora vola su ali misteriose). D’accordo con gli autori del libro, aggiungo una diversa traduzione segnalata da Mons. Pietro Vispi, anche in base all’individuazione di una “p greca” parzialmente cancellata da una fessurazione della mattonella: “ΧΡΟΝΟΣ (Π)ΑΝΤΑΚΟΥ ΔΙΕΠΕΙ” (Il tempo sistema sempre tutto) “ΑΜΒΙGUIS ALIS LABILIS HORA VOLAT” (Il tempo che passa vola con ali inafferrabili). Riporto volentieri le due traduzioni, entrambe affascinanti, anche per dimostrare la complessità nell’interpretazione dei pensieri tramandatici dal passato.
-
La scritta “AD ALTITUD GRAD 43” conferma che fu costruita per la nostra latitudine.
-
Sono rappresentati i simboli dei quattro principali segni zodiacali: Cancro, Capricorno, Ariete e Bilancia.
-
Sulla cornice esterna sono incisi i nomi dei venti: Mezzodì, Garbino (termine usato nel litorale Adriatico per indicare il vento di Libeccio), Ponente, Maestro, Tramontana, Greco, Levante, Scirocco.
GLI INDIZI
Ipotesi sulle vicende della meridiana possono essere desunte partendo dalle notizie riguardanti la misurazione del tempo nel castello della Fratta e la funzione degli edifici esistenti nella zona del ritrovamento (Piazza Fortebraccio, Via Alberti, Piaggiola).
Una registrazione del 1477 riferisce di una Porta della Campana (figura 2), aperta verso Montone nell’angolo nord delle mura del castello, in cima alla Piaggiola. Sopra la porta, in origine, si elevava una torre alta 22 metri. Nel XVI secolo fu sopraelevata con una torretta in legno di 11 m, alla cui base fu ricavato un nicchione, con dipinta l’immagine della Madonna. In cima fu aperta una loggetta, per alloggiarci la Campana del pubblico. La costruzione diventò uno dei principali riferimenti per il popolo, tanto che l’intero rione circostante assunse il nome di Terziere della Campana. Il donzello del Comune era incaricato di suonare la [campana] grossa per segnalare, oltre ad eventi straordinari, le ore canoniche: Lodi (all'alba), Prima (circa alle 6), Terza (alle 9), Sesta (alle 12), Nona (alle 15), Vespri (al tramonto) e la Compieta [sic], prima di coricarsi.
Dove la campana non era a portata di orecchio, era la posizione del sole in cielo a segnare il tempo o, se il cielo era nuvoloso, bastava l’intensità della luce a scandire la vita lenta dei nostri antenati.
Poi, con la diffusione degli orologi meccanici, ne fu installato uno al di sotto della campana. Il compito di sorvegliarlo, manutenerlo e caricarlo passò al moderatore del pubblico orologio [moderatore: chissà se con questo nome si intendesse invitare le sfere a non aver troppa fretta?]. È verosimile che l’imprecisione di quei primi meccanismi imponesse di rimetterli all’ora giusta con frequenza quasi quotidiana. Questa funzione, in mancanza degli odierni segnali – orario alla radio, poteva essere svolta solo da una meridiana. La simbiosi fra i due strumenti è confermata dalla coincidenza del periodo presumibile dell’istallazione dell’orologio meccanico (XVII secolo) e l’anno (1658) inciso sulla meridiana della Fratta.
Il locale del ritrovamento (delimitato in verde nella figura 3 e 4) si trova al margine sud della quinta di edifici dell’attuale Piazza Fortebraccio, originariamente “Piazza Grande del Comune”, di fronte alla Rocca” (platea comunis dicti castri ante cassarum).
Esistono diversi documenti che consentono di dedurre l’evoluzione delle costruzioni all’angolo fra Piazza Fortebraccio e Via Alberti.
Nel XIV secolo l’edificio in cui è stata ritrovata la meridiana non esisteva, ma al suo posto c’era una rampa esterna (figura 5), che fu demolita (figura 6) quando diventò di ingombro per il ponte levatoio che sarebbe calato verso la piazza dalla Rocca in corso di costruzione: infatti, tra i lavori commissionati al Trocascio (27 maggio 1385) ci fu anche quello di abbatterla e ricostruirla all’interno (“Eo Trocascio prometto ... levare la scala del palazzo del podesta e refarla dentro al ditto palazzo o altrove, si che non noccia al cassaro [Rocca]”).
Nelle figure 5 e 6, sono riportati dei particolari riguardanti l’edificio retrostante, verso ovest, desunti da atti del notaio Nicola di Antonio. Innanzitutto era del Comune, come risulta da un documento del luglio 1443: " … nella piazza di detto castello, davanti al palazzo del Podestà e della Rocca (…in platea dicti castri ante palatium potestatis et arcem)"…; nel 1448, “nel palazzo del Comune e residenza del detto Podestà di detto Castello, nella sala superiore di detto palazzo (... in palatio Communis et residentiae dicti potestatis dicti castri in sala superiori dicti palatii) …” (1). In un altro atto dell’anno successivo si parla di “sala inferiori”(2). Di “sala superiori” si riferisce in atti del 1464 e del 1466 (3). Si desume quindi che nel palazzo esisteva una vasta sala al piano terra (attuale ingresso di servizio al teatro di Via Alberti, 22), che poteva servire per le riunioni del Consiglio comunale, e un appartamento al primo piano (con ingresso al n. 20) in uso del Podestà, cui si accedeva con una scala esterna. Oggi la nuova scala, il cui intradosso è visibile appena a sinistra dell’entrata al n. 22, consente di salire al primo piano dall’ingresso al n. 20 di Via Alberti.
Una pianta di Anonimo risalente al 1730 (figura 7) ci mostra che ancora non esisteva l’edificio del ritrovamento. Stessa indicazione ci deriva da un disegno del Fabretti del 1780 (vedi nota finale), che evidenzia anche l’esistenza di una cappella annessa al Monastero delle Monache di Castelvecchio, segnalata in figura 4.
LE DEDUZIONI
In base agli indizi sopra descritti, ho cercato di ricostruire le vicende della nostra meridiana.
In primo luogo, è presumibile che non facesse parte del complesso religioso adiacente al locale del ritrovamento. Infatti, il monastero delle Monache di S. Maria di Castelvecchio era stato soppresso alla fine del XIV secolo, due secoli prima della costruzione della meridiana. Inoltre, le ore incise sulla superficie dell’ottagono - ore italiche di uso civile, anziché italiche da campana adottate per i campanili - supportano l’ipotesi di un uso civile ed escludono quello religioso.
Un’ulteriore traccia: la piccola distanza – poche decine di metri – del locale del ritrovamento della meridiana dalla torre civica della Campana (e, poi, dell’Orologio), fa ritenere che i due sistemi di misurazione del tempo fossero in stretta simbiosi, confermata dalla coincidenza dei rispettivi periodi di costruzione.
L’adiacenza alla sala del consiglio comunale e alla sede del Podestà, fa ritenere che fosse esposta in qualche punto della piazza. Il davanzale della finestra della “sala superiori”, al primo piano di via Alberti 20, era verosimilmente il punto ideale (figura 8) su cui esporla nella posizione orizzontale per cui era stata concepita. Infatti era soleggiato e protetto, a portata di mano della massima autorità del castello.
Mauro Bifani ha confermato la validità di questa ipotesi, riscontrata in altre realtà: all’interno della biblioteca Sperelliana di Gubbio, è conservata la meridiana originalmente esposta sulla finestra dove è rimasta traccia della sede, ben orientata, in cui era posizionata; anche nelle Marche ce ne è un’altra, ancora al suo posto, che fa bella figura sul davanzale di una finestra.
Il matrimonio platonico fra lo strumento solare e quello meccanico, non consumato per la distanza delle rispettive residenze, entrò in crisi nel XIX secolo, per diversi motivi.
Per la torre della Campana arrivarono i segni della vecchiaia: nel 1815, a causa di un cedimento delle fondamenta, era stata accorciata, ma con scarsi risultati: nel 1820 fu completamente abbattuta. Ma l’orologio era troppo importante per gli abitanti della Fratta per farne a meno: in contemporanea si costruì una nuova torre (figura 9) nella piazza centrale – Piazza del Grano – di fronte all’attuale Municipio, che era diventata il nuovo baricentro del paese. Ma l’acquisto di un nuovo orologio comportò la condanna a morte di quello vecchio, già malmesso per le rotelle consumate e arrugginite.
La soluzione si rivelò precaria perché, dopo appena mezzo secolo, nel 1873 si decise di allargare la Piazza del Grano per dare aria all’attuale Piazza Mazzini; per fare spazio, la neonata torre fu condannata a morte, all’acerba età di 53 anni. Come si vede, anche in passato, non tutte le scelte erano lungimiranti.
Anche per la meridiana, rimasta vedova, si profilò la fine. A metterci un carico da undici ci fu la costruzione dell’edificio al numero 9 di Piazza Fortebraccio, come risulta da una pianta del Catasto gregoriano (figura 10) risalente al periodo 1830-1850. Da quel momento la zona assunse l’assetto attuale.
La nuova costruzione “accecò” la finestra della sala superiori dove la meridiana era dimorata, privandola della sua funzione. Di conseguenza fu licenziata e sfrattata. Trovò rifugio nel locale in cui è stata ritrovata, declassata a semplice elemento decorativo, seppure con il vantaggio della protezione dalle intemperie. Successivamente si è infierito, segregandola sotto l’intonaco. Insomma: oltre che nella vita, lo strumento solare e quello meccanico sembrarono uniti anche nella fine. Ma per la meridiana ci fu una sorpresa.
IL RIPOSO FINALE
Riscoperta nel terzo millennio, a cura del proprietario la meridiana è stata spostata nel suo ambiente naturale, all’esterno di un casolare ameno nella dolce campagna umbra.
Sebbene impiccata in verticale - contrariamente alla sua natura di rilassarsi in orizzontale - e con orientamento casuale rispetto ai punti cardinali, è ben felice di essersi ricongiunta al sole, rimanendo un’interessante testimonianza della storia della Fratta.
GLI EREDI
Siccome l’appetito vien mangiando, mi ha incuriosito conoscere chi è subentrato alla meridiana e all’orologio suo marito, nel compito di scandire il tempo della nostra comunità dopo la demolizione nel 1872 dell’effimera torre della piazza.
Nessuno poteva raccontarcelo meglio di Egino Villarini, che mi ha affiancato alla tastiera del pc.
Nel mese di novembre del 1876 furono completati i lavori per l’ampliamento della vecchia Piazza del Grano, decisi dal Comune a causa dell'aumento del volume delle attività commerciali, dell'accrescersi della popolazione e del fatto che essa "era in angusto spazio ristretta"; non ultimo, "il poco decente aspetto dei fabbricati" che immiseriva il palazzo Sorbello, sede del Comune.
La piazza (oggi piazza Matteotti) prese il nome di Umberto I. Al centro del palazzo di fronte al municipio (Figura 11) fu collocato un nuovo orologio con campana. Era azionato da grossi blocchi di pietra che, appesi ad una catena, scendevano dall’ultimo piano fino a terra, dove era collocato l’Ufficio postale. In tempi più recenti, il compito di girare la manovella per far risalire i pesi non poteva non essere affidato a Gino Vannoni, orologiaio. Fu lo stesso ingegner Villarini a sollevarlo dall’incombenza automatizzando l’operazione.
Nel 1918 entrò nella vita degli umbertidesi l’orologio della scuola elementare (Fig. 12), con il compito di avvertire gli scolari, alle 8 e un quarto, che era l’ora di incamminarsi e, alle 8 e mezza, che la porta si stava chiudendo. Oggi gli orologi sono dappertutto - per le strade, nelle piazze, addosso a chiunque - per sincronizzarsi con i ritmi frettolosi della vita moderna. Ma tutt’altra sensazione sarebbe rispondere, come ieri, alla chiamata a raccolta dalla voce della scuola: un rito solenne della comunità, a testimonianza della premura collettiva riservata al processo di inserimento dei giovani nel ciclo della vita sociale. Quei rintocchi famigliari, allora erano percepiti da tutti, grazie al silenzio nel paese e alla concentrazione delle abitazioni; oggi sarebbero forse soffocati dal rumore delle auto e smorzati per la lontananza delle periferie. Eppure potrebbero rappresentare il simbolo di una comunità coesa e armonica, nauseata da decenni di smodato individualismo.
Sarebbero opportuni soprattutto in questi tempi di clausura.
NOTA
A proposito del volume del Fabretti, voglio raccontare un dettaglio singolare. Insieme ad Amedeo Massetti lo stavamo consultando nella Biblioteca Augusta di Perugia, quando ci imbattemmo in una pianta riferita a “Fratta” (figura 13, a sinistra), ma appariva totalmente diversa da quella del nostro paese. Pensammo che fosse frutto di un errore, verosimile anche per la bassa qualità del disegno, attribuibile ad un autore alle prime armi. Dopo varie considerazioni, scoprimmo il dilemma: l’immagine era stata copiata in controluce sul vetro di una finestra, ma dal lato sbagliato. È bastato fare l’operazione opposta – stavolta con il pc – per avere il disegno giusto, ma con il nome “Fratta” invertito (figura 13, al centro). Un ingrandimento della pianta (figura 13, a destra) fa intravedere la mancanza dell’edificio del ritrovamento. Si nota anche un dettaglio interessante: è segnalata con una croce (appena percepibile) una chiesetta – ad indicazione che era ancora officiata – annessa all’adiacente monastero delle Monache di S. Maria di Castelvecchio.
NOTE AL TESTO:
Arch. Notar. di Umbertide, Notaio Nicola di Antonio, atti 1448 – 1450, cat. 276 /74, carta 11 / v
Arch. Notar. di Umbertide, Notaio Nicola di Antonio, atti 1448 – 1450, cat. 276 /74, carta 99 /
Arch. Notar. di Umbertide, Notaio Nicola di Antonio, atti 1464 – 1466, cat. 283/5, carte 10 / r, 120 / v, 225/ v
RINGRAZIAMENTI
Per questa piccola ricerca, mi sono ampliamente avvalso del lavoro di amici:
-
Renato Codovini, generoso iniziatore e suggeritore per tutti i ricercatori di storia locale, che ha riesumato documenti storici altrimenti destinati a rimanere sepolti negli archivi;
-
Amedeo Massetti, indimenticabile amico e cittadino perfetto;
-
Egino Villarini, fonte inesauribile delle innovazioni introdotte nel paese, con l’affidabilità e i dettagli per esserne stato protagonista;
-
Adriano Bottaccioli, che ha immaginato da ogni punto di visuale i pezzi scomparsi del nostro paesone, ricostruendoli con la capacità dell’artista e con l’affetto dell’ex-emigrante;
-
Mauro Bifani e Manlio Suvieri, che hanno fornito le informazioni tecniche indispensabili alla ricostruzione di una storia verosimile per la nostra meridiana.
-
Fabio Mariotti, che ha verificato il testo (una volta mi affidavo ad Amedeo), arricchendolo di immagini.